Lo statuto delle lavoratrici: un'inchiesta fatta di statistiche e confidenze

Lo statuto delle lavoratrici: un'inchiesta fatta di statistiche e confidenze

Abbiamo incontrato Irene Soave, giornalista del Corriere della Sera e autrice per Bompiani di Galateo per ragazze da marito e di Camilla, la Cederna e le altre, un omaggio alla grande giornalista Camilla Cederna.

 

Nel suo nuovo libro – Lo statuto delle lavoratrici, Come ti senti, a cosa hai diritto, dove possiamo cambiare - Soave ripercorre, articolo dopo articolo, Lo statuto dei lavoratori - in vigore in Italia dagli anni Settanta - offrendo una fotografia impietosa della situazione lavorativa delle donne (ma non solo) in Italia.

Allo stesso tempo, intrecciando statistiche e testimonianze, propone un futuro possibile in cui il mondo del lavoro si trasformi in un luogo in cui tutti e tutte si possa stare meglio e senza rinunce.

 

Il suo libro si intitola Lo statuto delle lavoratrici, ma non riguarda solo la condizione lavorativa delle donne. Perché questa scelta?

In Italia lavora una donna su due. Tra chi ha figli, una su tre. Le altre sono pigre, il principe azzurro le tiene in un castello, hanno ereditato? Oppure il lavoro le esclude? I problemi dell’occupazione femminile sono notissimi: scarse infrastrutture per la conciliazione lavoro-famiglia, stipendi bassi, precarietà, ambienti tossici. Ma sono problemi che gli uomini non hanno? Nel mio Statuto il femminile è sovraesteso: sono lavoratrici quelli che sono pagati poco, sacrificano le relazioni, hanno un capo che li vessa. In Italia è contento del lavoro che fa solo il 5% della popolazione attiva. Un po’ poco, no?


E perché lo Statuto?

Lo Statuto dei lavoratori garantisce diritti che riteniamo ovvi, come non essere perquisiti all’uscita dall’ufficio o sorvegliati con guardie armate (art.2), non sentirsi chiedere dal capo se sei sposata o incinta (art. 8) né essere licenziata per questa ragione (art. 18). Eppure per approvarlo ci vollero diciotto anni, di cui dieci di proteste e lotte guidate dal movimento operaio e dagli studenti. Nell’«autunno caldo» del 1969 si persero quattrocento milioni di ore di lavoro per scioperi. Nel 1970, ecco lo Statuto.
Nell’ultimo biennio i lavoratori di tutto il mondo scioperano e protestano. Credo che questo tipo di conflitto sia necessario: non miglioreremo le condizioni a cui lavoriamo dimettendoci alla spicciolata, facendo il quiet quitting, o a colpi di meme.

Il rapporto con il lavoro è cambiato negli ultimi anni. Quali i cambiamenti più evidenti?

Molte persone faticano a entrare nel mondo del lavoro, a restarci e esserne soddisfatti. Questo è descritto perlopiù come un cambiamento di costume: i giovani sono pigri, vogliono fare gli influencer, il reddito di cittadinanza ha viziato i poveri. Ma se si guarda alla crescita insufficiente dei salari, alle leggi che hanno smantellato tutele fondamentali, alla crisi della contrattazione collettiva - insomma non al costume - si vedono in questa disaffezione radici molto materiali.


Lo statuto delle lavoratrici è un libro di “statistiche e di confidenze”: un’indagine giornalistica rigorosa, ma sentimentale. Perché?

Io vorrei che una persona che è scontenta del proprio lavoro, qualunque sia, leggendo il mio Statuto riuscisse a trasformare la tristezza in qualcos’altro. Ad esempio in rivendicazione. Per questo è stato importante dare spazio ai sentimenti. Spesso nella storia delle donne hanno avuto un valore eversivo più grande dei soli dati. Nel libro faccio l’esempio del Rapporto Hite sulla sessualità femminile. Uscito nel 1976, era basato su 3.019 interviste a donne americane. La conclusione era che il modo maschiocentrico di vivere il sesso non piaceva quasi a nessuna, e contribuì a rivoluzionarlo. La comunità accademica contestò la ricerca di Hite: tremila questionari, sui centomila che lei aveva inviato a gruppi di donne, erano pochi. Eppure il suo libro fu miliare.


Nel libro c’è un capitolo dedicato ai millennials e al rapporto che questa generazione ha con l’indipendenza e il lavoro. Cosa è cambiato?

Sono la generazione da cui è diventato più evidente che il lavoro non basta a dare l’indipendenza. Dalla famiglia: una larga parte di chi, nato negli anni Ottanta, possiede una casa, l’ha ereditata o comprata con denari dei genitori. Spesso non si esce dalla «gavetta»: in editoria, accademia, alta ristorazione, arte, ma anche in settori un tempo considerati sicuri come molte libere professioni, i datori possono contare su un bacino di perenni aspiranti e false partite Iva che si «pagano» da soli la formazione e l’ingresso nella forza lavoro offrendo prestazioni a condizioni precarie e sfavorevoli per sé, ma egregie per chi li impiega. Il rapporto si stabilizza solo nel 35-40% dei casi.


Perché in copertina ci sono delle api?

L’ape è stato il mio animale guida nella scrittura e capirete subito perché. E poi sono simbolo di operosità, del piacere che può esserci nel lavoro, di collettività; infine sono una perfetta metafora delle donne e dei lavoratori nella società, che a parole dice di volerne tutelare l’estinzione e nei fatti crea le condizioni per avvelenarle. Per fortuna le api sono anche capaci di pungere.

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