Francesco Guccini: Così eravamo. Cinque racconti tra vita e storie
Paolo Iacuzzi, l'editor che ha curato la pubblicazione del libro Così eravamo - Giornalisti, orchestrali, ragazze allegre e altri persi per strada - ha incontrato per noi il suo autore Francesco Guccini - cantautore-poeta e autore amatissimo da un pubblico intergenerazionale.
Qual è stato il punto di partenza per la scrittura di questi cinque racconti che compongono il tuo nuovo libro, “Così eravamo”?
L’idea iniziale era quella di scrivere dei “racconti modenesi” ispirati ad alcuni eventi di cui sono stato testimone o mi sono accaduti, storie dalla “Piccola città”. Io sono nato a Modena, nel 1940, e vi ho abitato stabilmente dai cinque ai vent’anni, più o meno per 15 anni. Durante gli anni della guerra invece ero stato sfollato a Pavana, il paese dei miei nonni paterni, il luogo in cui sono tornato ogni estate a trascorrere le vacanze. Modena era allora, più di ora, una città particolare, una città di provincia, chiusa in sé, piccola appunto. Questi racconti prendono spunto dalla vita a Modena. Il primo, intitolato Colombini, dal nome di un mio compagno di classe, si svolge nel 1952 ed è legato strettamente al periodo in cui frequentavo le scuole medie, allora severe e classiste. Poi il panorama si allarga, fino a quello descritto nell’ultimo racconto, quando, da modenese, partii per il servizio militare. Quindi ho provato a rievocare la Modena delle balere, nel racconto omonimo, che riguarda da vicino il mio periodo da musicista e da cantante orchestrale, quando ero ancora ben lontano dal mestiere del cantautore. Allora avevo come amici Bonvi, Victor Sogliani dell’Equipe 84, Corrado Bacchelli e Dodo Veroli, rispettivamente manager e arrangiatore dei Nomadi. Eravamo un gruppo che non solo suonava insieme ma leggeva di tutto, non solo la letteratura alta ma anche la fantascienza, i gialli per esempio. Naturalmente andavamo anche al cinema a vedere dei film. Diciamo che la cultura americana ci sovrastava e ci affascinava.
Tuttavia, nel libro non c’è soltanto la componente della tua autobiografia, perché dimostri ancora una volta di avere la grande capacità di inventare dei personaggi che hanno una vita propria…
Certamente, come nelle mie canzoni. Per esempio, nel racconto intitolato Il giornalista, scrivo di un giovane che vuol fare questo mestiere. Lì, alla base, c’è la mia esperienza in un giornale locale. Ho voluto scrivere di un mondo duro, fatto di povertà e di miseria, ma anche di feroce gavetta nelle redazioni dei giornali. Pensa che allora c’erano tre quotidiani a Modena: oltre alla “Gazzetta dell’Emilia”, nella quale ho lavorato io e che esiste ancora, c’erano la pagina locale del “Resto del Carlino” e quella dell’“Unità”, che era nostra avversaria e che non esiste più.
Anche la storia della competizione erotica nel terzo racconto, “La gara”, è vera?
Sì, come no, me l’hanno raccontata. Il protagonista è un mio collega della “Gazzetta”.
L’idea è stata quella di raccontare un mondo attraverso la nostalgia, oppure con uno sguardo disincantato?
Nessuna nostalgia, proprio la escludo. Sì, c’è il ricordo di cose avvenute attraverso un grande disincanto.
Rispetto a “Vacca d’un cane”, il libro “modenese” pubblicato da Feltrinelli nel 1993, che ha un’architettura più romanzesca, dopo trent’anni hai deciso di parlare di Modena scrivendo dei racconti. Che cosa è cambiato rispetto ad allora?
Non adopero né dialetto né termini gergali modenesi, non ho voluto scrivere un libro “sperimentale” come quello. Mi è venuto in mente il primo racconto, l’ho scritto, e poi ho deciso di scrivere gli altri. Colombini era un mio compagno di scuola, ma di lui non so assolutamente niente. Non so nemmeno se il suo cognome fosse di origine modenese oppure di una qualche altra parte d’Italia. Colombini in realtà è un pretesto per raccontare delle mie scuole medie, che sono state, per così dire, una “tragedia”, perché sono stato rimandato in prima classe in Latino, in seconda in Latino e Matematica, in terza addirittura in Latino, Matematica, Inglese e… Disegno! Credo di essere stato l’unico, nella scuola italiana, ad essere stato rimandato in questa materia: avevo per professore un anziano pittore “mancato”, che però era anche un uomo elegante, dal carattere mite. Ma a quei tempi, tornare ogni anno in anticipo a Modena, a settembre (allora si tornava a scuola il 1° di ottobre!) mi faceva star male, perché dovevo lasciare i miei amici a Pavana, il fiume e… tutti i suoi divertimenti.
Il libro si apre e si chiude con il pensiero della morte: nel primo racconto, evochi la scomparsa prematura di Colombini che, per suprema ironia, non ha visto tutto quello che è venuto dopo, la televisione, “Lascia o raddoppia?”, la guerra del Vietnam o la tragedia del Vajont; nel quinto racconto, “Un portacenere rosso”, evochi senza nominarlo proprio il Vajon, parlando di una ragazza che faceva la barista, e della quale poi non hai saputo più niente: di lei ti eri invaghito, e forse avresti potuto portarla via da lì prima che avvenisse quel disastro. O forse saresti tu potuto rimanere lì con lei, per un crudele destino. C’è una morale in tutto questo?
C’è una morale, sì, dentro ciascuno di questi miei racconti. Così come una morale c’era in ciascuna delle mie canzoni: le possibilità infinite della nostra vita. Il mio compagno e quella ragazza di allora non hanno avuto questa possibilità, ma non c’è crudeltà nel mio sguardo, semmai c’è una sorta di fatalismo. Colombini morì prima di Natale, e non poté festeggiare nemmeno tutti i Natali venuti dopo. Ma questa è la vita! Così accade in tante mie canzoni: ci si chiede che cos’è la vita, che cosa vuol dirci e che senso abbia, la nostra vita. Occorre sempre farsi delle domande attorno ad essa.
I tuoi racconti sono scritti con ironia e distacco, con un tono scanzonato e beffardo…
Questa è la caratteristica della mia scrittura, e deriva dall’aver amato molta letteratura inglese. Una caratteristica tipica degli scrittori inglesi, ma anche di quelli irlandesi, è usare l’ironia. Ho amato molto Dickens, Wodehouse e Jerome: il loro gusto per il paradosso e l’esagerazione, l’uso di strutture antifrastiche, ovvero l’abitudine ad esprimersi con termini che hanno un significato opposto a quello che realmente uno pensa, o per ironia o per eufemismo. Con tutti i miei amici di allora, di cui ti ho detto, condividevo soprattutto la passione per Woodhouse, a tal punto che certe volte ricalcavamo addirittura il suo stile di vita o quello descritto nei personaggi dei suoi romanzi. Avevamo perfino inventato “il gioco del padrone”, nel quale uno comandava un altro, e viceversa, sfottendoci a vicenda. Seguivamo quindi delle situazioni ispirate dalla letteratura. Una volta, seguendo certe atmosfere “false” di Dickens (perché a Londra e dintorni non nevica mai!), sognavamo un Natale durante il quale la gente cantava gighe e caròle, e la notte scendevamo anche in strada per fermare alcune macchine, intonando allegramente dei canti natalizi. Forse, nel libro che ho scritto, si esprimono dei valori, anche un’idea personale di amicizia.
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